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Testo della Quiete

La quiete dopo la tempesta, nota critico-testuale

Composto a Recanati fra il 17 e il 20 del settembre 1829, come attesta l’autografo (AN, XIII, 21), venne pubblicato nell’edizione dei Canti del 1831, poi nella Starita 1835, e infine corretto dal poeta sulla copia di scarto, con una breve ma significativa innovazione (su cui v. ad fin.), in linea cogli umori di quel tempo e con il timbro sarcastico-ironico che lo informava in componimenti come la Palinodia, i Paralipomeni e la stessa Ginestra.

Come osservato dagli studiosi il canto, che per motivi e struttura si lega strettamente al seguente, riprende una tematica, all’interno del pensiero leopardiano, contenuta in forma più neutra e meno negativa nello Zibaldone (2599 ss.), passo che non farà male trascrivere per intero:

«L’uniformità è certa cagione di noia. L’uniformità è noia, e la noia uniformità. D’uniformità vi sono moltissime specie. V’è anche l’uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho detto altrove, e provatolo con esempi. V’è la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa, benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a continue descrizioni, hanno tolto il piacere, e sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone di niuna letteratura, leggere avidamente l’Eneide [2600] (ridotta nella loro lingua) la qual par che non possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri le Metamorfosi, che pur paiono scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è sazietà, della cetra, del sonno ec. La continuità de’ piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai piaceri, anch’essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de’ piaceri (qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità degli animali. Quindi ell’ha dovuto allontanare e vietare agli animali la continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto parecchie volte come la Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in quell’orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza [2601] di beni nell’ordine generale della natura: massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di noia per se, come ho provato altrove, e di più non interrompono il piacere, e quindi non distruggono l’uniformità, così vivamente e pienamente come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent’altri mali inevitabili ai viventi, anche nello stato primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e l’università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni [2602] non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto 1822.)».

Ma se in questa meditazione ritroviamo già ben consapevole il «piacer figlio d’affanno» di v. 32, nonché anticipato lo stesso titolo del canto (la «calma dopo la tempesta» di fine pag. 2601), la Natura vi riceve ancora connotazione positiva, come nemica della noia, tant’è che vi leggiamo di un «ordine naturale» che addirittura «mira in tutti i modi alla… felicità». Ma come tutti sanno, solo di due anni posteriore era il Dialogo della Natura e di un Islandese (maggio 1824), ove la Gran Madre veniva dipinta in maniera ben diversa, anticipando in qualche modo l’amara apostrofe dell’ultima strofa della Quiete; la quale, già nell’autografo e fin nell’edizione napoletana, si concludeva con un secondo vocativo, triste e compassionevole verso il genere umano. Ma poi, negli ultimi anni, subentrerà nel poeta una sorta di riso luciferino, quello per intenderci dei Nuovi credenti (che io non daterei prima dell’estate del ‘36) e che gli farà dire (vv. 100-103):

«Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,
A cui grava il morir; noi femminette,
Cui la morte è in desio, la vita amara»

la cui vaga consonanza con l’ultimo verso del nostro canto, e ancor più il beffardo v. 106 «Degli uomini e del ciel delizia e cura», è non secondario motivo all’ultima modifica leopardiana del testo, ove la «Prole degna di pianto!» di v. 51 – ovvero l’umana «progenie» con connotazione «miseranda», come recita una stessa variante leopardiana – diviene, con greve ironia, «Prole cara agli eterni!» che par proprio intinto nello stesso riso gelido del verso 106 della satira; con probabile influsso sul v. 53 della Quiete, ove i due punti sostituiscono la precedente virgola e contribuiscono a dar maggior risalto ed enfasi all’ultima ipotetica, staccandola più nettamente dalla precedente e introducendovi una punta sarcastica e polemica che si riverbera fin nelle stanze precedenti. Pure, anche il contrario è vero, e quanto di eccessivo è nell’espressione vien mitigato dalla struttura antecedente, amara ma non polemica. E del resto vedremo risorgere la variante cassata nella «Mortal prole infelice» del v. 199 della Ginestra (e cfr. ibid. v. 184 s.), quasi a conferma di quanto notava il Folena sulla «coerenza del sistema di lingua poetica in tutta la sua traiettoria e la sua latitudine intertestuale», fornendo, nella presentazione della ristampa al grande Moroncini (Canti 1978, p. xvi), un analogo esempio di variante cancellata nell’Infinito, trasmigrata, a mezzo il quarto lustro, nel Tramonto della luna.

Metro – Canzone libera, di tre stanze variamente rimate e assonanzate, con frequenti rime al mezzo. Più ariosa e lineare la prima, più frastagliate le altre due, conforme al loro diverso nucleo lirico, non perfettamente amalgamato al primo, e tuttavia necessario a sollevare il poeta ben oltre i poeti «descrittivi» che egli critica nel passo citato dello Zibaldone.

Autografo – Ottima riproduzione all’indirizzo: http://www.bnnonline.it/biblvir/quiete.htm [09-11/10]

 


© 09-11/10 — > 13.11.2010