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Testo della Ginestra

La ginestra, nota critico-testuale

Composta nella primavera del 1836, nella villa Ferrigni di Torre del Greco, nello stesso torno di tempo in cui Leopardi compose il Tramonto della luna, come si può dedurre dal raffronto incrociato della lettera di Giacomo al De Sinner del 6 aprile - 28 giugno (che possiamo ben considerare i due termini dei due canti) e di quella del Ranieri a Monaldo del 26 giugno 1837, che oltretutto rappresenta la prima menzione, anche se velata, del componimento: «la villeggiatura del maggio dell’anno scorso ci era riuscita cosi deliziosa, Giacomo aveva composto così belle cose sulle vette ora aride ora selvose di quel bellissimo e formidabile monte, che tornati in città, ci sapeva mill’anni di ritornare in campagna». Preparata e ordinata per la Baudry, non potrà essere pubblicata che nel 1845, nell’edizione Le Monnier (= F45). Non se ne conosce autografo, ma restano tre copie di mano del Ranieri, di cui si suole tener per definitiva la terza, scartando in maniera forse un po’ aprioristica la posteriore testimonianza della prima stampa.

Mi si concederà una nota particolare al v. 51. se non altro perché, fin dal 1998, esso è la mia email signature preferita. Il v. 51 è citazione, elegantemente adattata, del cugino del poeta, Terenzio Mamiani della Rovere (1799-1885)Mamiani_Inni_Sacri_1832, quale si legge in una sua dedica del 1832 premessa ai suoi Inni sacri editi in Parigi, poi recensiti favorevolmente da Raffaele Liberatore nel «Progresso» di Napoli (1933). Recensione che non dovette far troppo piacere al Leopardi, in quanto vi si sosteneva, pur elogiando il Recanatese per ricchezza di pensiero e di concetti, la maggior poeticità dell’omonimo Inno ai patriarchi del cugino pesarese. Giudizio che anche a prescindere che il canto VIII non sia fra le cose migliori di Giacomo, non può essere facilmente condiviso. Come che sia, ecco un estratto della dedica originaria del Mamiani (Inni sacri, Parigi, Éverat, 1832, p. 6):

«la vita civile incommincia dalla religione; con lei crescono, durano e si fanno venerande le glorie nazionali, i riti, le leggi, i costumi tutti d’un popolo: radunansi in lei e partecipano del lume suo le memorie precipue de’ tempi e le auguste speranze dell’avvenire. Sentirono di questo modo e procederono così in ogni cosa quegli Italiani, che nel secondo e terzo secolo [leggi XII° e XIII°] rinnovarono le maraviglie del valore latino; beati davvero e gloriosi senza fine nella ricordanza dei posteri, se mai dalla mente non cancellavano essere tutti figliuoli d’una grande patria e che la prima legge evangelica prescriveva loro di sempre amarsi l’uno l’altro come uguali e fratelli, come chiamati a condurre ad effetto con savia reciprocanza di virtù e di fatiche le sorti magnifiche e progressive dell’ umanità».

Il precedente corsivo è ovviamente mio, e congloba le parole «dell’umanità» perché di solito lo si dimentica, ma al verso precedente Leopardi cita anche quelle («… dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive.»). Quanto al Mamiani, non stupisce certo che questi, così nutrito di quello spiritualismo ottimista che negli ultimi tempi della sua vita Leopardi irrideva senza mezzi termini, non dovesse star troppo simpatico al cugino. Tralascio, di anni prima, un cenno annoiato dell’Epistolario, che può essere cosa del momento, ma di sicuro le loro idee non erano fatte per intendersi.

Più numerosi del solito, stante la tradizione non autografa, i problemi testuali, non sempre risolti dagli editori in modo soddisfacente. Qui mi limito a segnalare che al v. 64 seguivano tre versi, poi cancellati ed infine assenti nella terza copia del Ranieri (ma non nella lemonnieriana):

E ben facil mi fora
Imitar gli altri, e vaneggiando in prova,
Farmi agli orecchi tuoi cantando accetto:

Quanto all’interpretazione del canto, sembra oggi ormai definitivamente abbandonata l’idea luporiniana di un Leopardi «progressivo», cui i versi ginestriani sulla fratellanza degli uomini portavano fresca acqua. Bene, se si tratta di puntualizzare. Male se si tratta di scordarci quei versi: non avranno rilevanza prettamente politica (è davvero un danno?) ma ci sono, e assurgono un valore magari apolitico, ma proprio per questo più universale. Per un discepolo ortodosso del Croce ciò avrebbe non tolto, bensì aggiunto alla poesia. E forse alla poesia bisognerebbe tornare, in quanto, anche se giustificate dalle parti oratorie del canto, le recenti letture tendono a metterla un po’ in ombra, troppo interessate come sono al sottofondo filosofico.

 

Infine; abbiamo visto Leopardi rivolgersi all’Italia, al Mai, alla sorella; alla sua Donna, a Silvia, al Pepoli; lo abbiam visto rivolgersi alla Primavera, alla luna, alle stelle; a se stesso, ad Aspasia, al candido Gino. Lo abbiamo visto persino rivolgersi al passero solitario, ipostasi animale ed arazionale del poeta. Lo vediamo ora abbassarsi ad apostrofare un vegetale, la lenta e odorosa ginestra; lo vediamo non più «erta la fronte e armato e renitente al fato». Non più nemmeno il «tronco che sente e pena». L’ultima ipostasi del poeta è qual egli la desiderava: non renitente, innocente, non piegata codardamente, ma nemmeno orgogliosamente eretta. E, finalmente, saggia, non più malata del male edenico dell’uomo: l’egocentrismo.

 

Metrica – Canzone libera leopardiana, con le usuali rime sparse, assonanze e rime al mezzo, ma in misura più parca e spezzata del solito, con strofe di insolita lunghezza. Notevole la terminazione del v. 201 («Non so se il riso o la pietà prevale»), ove non si può far a meno di pensare al Canto notturno, e del resto tutta la quarta strofa rieccheggia di quel canto. Quanto all’impianto retorico, la statistica di fine Ottocento (Mariotti in Piergili, Nuovi documenti. Firenze, 1892, p. XIX) era già arrivata a notare che mentre nella maggior parte dei canti Leopardi, come Dante nella Commedia, adopera un aggettivo ogni tre sostantivi, nella Ginestra il rapporto è di uno a due. Indizio, ma davvero non ce n’era bisogno, delle parti oratorie e polemiche della lirica.

 

Riproduzione – L’edizione parigina 1832 degli Inni Sacri del conte Terenzio Mamiani della Rovere.

 


© 09-11/10 —> 26.11.2010