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Imitazione (testo)

Imitazione, nota critico-testuale

Imitazione, in quanto libera traduzione de La feuille, bella poesia di Antoine-Vincent Arnault (1766-1834), che la scrisse, come ricorderà poi il Saint Beuve nelle Causeries du lundi (tome sèptieme, Paris , Garnier Frères, 1853, p. 408), nell’inverno 1815-1816, dopo la definitiva caduta di Napoleone; per la quale l’Arnault, amico e seguace del grande Corso, fu costretto all’esilio. Si tratta quindi di lirica con matrice autobiografica, e questo dato ne spiega certe esagerazioni (v. 4 il temporale che spezza addirittura la quercia) e la rassegnata ma anche risentita saggezza di fronte alle avversità (v. 12 ss.: senza lamentarsi e sgomentarsi, di fronte a un destino che comunque va accettato perché alla fine è comune a tutte le cose). La traduzione leopardiana depura questi motivi soggettivi, e con il suo inquietante interrogativo, cui una risposta non vien data, si muove verso ragioni più universali e consentanee all’ispirazione del Recanatese, se vogliamo analoghe a quelle del Canto notturno. In effetti, se pur gli interventi del traduttore sono minimi, essi trasformano profondamente l’originale, sottolineando con molta più forza la fragilità umana, l’indifferenza della natura e la vanità dei sogni degli uomini, in primis bellezza e gloria. Per un eccellente commento in rete, in formato PDF, si veda Leop35.pdf [12/02/2012].

La feuille

De ta tige détachée,
Pauvre feuille desséchée,
Où vas-tu ? - Je n'en sais rien.
L'orage a brisé le chêne
Qui seul était mon soutien.
De son inconstante haleine
Le zéphyr ou l'aquilon
Depuis ce jour me promène
De la forêt à la plaine,
De la montagne au vallon.
Je vais où le vent me mène,
Sans me plaindre ou m'effrayer:
Je vais où va toute chose,
Où va la feuille de rose
Et la feuille de laurier.

 



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È degno di nota, ed è strano che i maggiori commentatori dei Canti non l’abbiano segnalato, che Leopardi, contrariamente alle sue abitudini, non citi l’Arnault. Tanto più avrebbe dovuto farlo nell’anno in cui Imitazione venne data alle stampe, il 1835, ché il francese era morto proprio l’anno prima. Molto probabilmente egli non conosceva affatto l’autore di quei versi stranieri, che egli doveva aver letto, anonimi (1), nel 1818 in un giornale milanese in cui spesso anch’egli scriveva, lo «Spettatore» (2). Si è discusso sulla possibilità che la lirica risalisse, più o meno variata, a quell’anno, ma oggi è oramai opinione consolidata, per stile, tematica, metro che essa non sia anteriore al 1828. E niente, aggiungerei, vieta che sia posteriore, dato il breve respiro della lirica, anche se la collocazione più logica non può non rimandare al 1828-29 (ma è argomento non determinante, e una volta tanto il Mestica che pensava al 1831-35 non è da scartare a priori).

Pubblicato a Napoli nel 1835, originariamente come canto XXXIII, nella Starita corretta il componimento venne barrato, per lasciar posto a Tramonto della luna e Ginestra, ed essere inserito dopo di loro (quindi al XXXV, ove in effetti verrà collocato nel 1845). Per far questo Ranieri si servì dello stesso fascicolo adoperato in funzione della ventilata Baudry (AN XX, 3), contenente il Tramonto autografo, tranne gli ultimi sei versi, e la Ginestra idiografa, dopo la quale egli trascrisse la breve lirica. Questa trascrizione, in seguito confermata alla lettera nella Le Monnier, presenta un paio di problemi: al v. 1 la banalizzazione proprio per propio, probabile errore di copia che ragioni eufoniche, accettate concordemente dalle ultime edizioni critiche, consigliano di respingere; mentre discorso più sfumato va fatto sulla lineetta di dialogo, inserita con altra penna a posteriori al v. 3, fra tu? e Dal (cioè Dove vai tu? — Dal faggio). Diversamente che nel caso di proprio, questa innovazione, inconsapevole non può essere, e se cosciente riesce altresì difficile pensare che Ranieri abbia tradito così platealmente il dettato originario. De Robertis fa rilevare che l’usus leopardiano era diverso, citando l’esempio di XV, 75-76, ma è esempio lontano nel tempo, e anche in altri casi Leopardi mostra elasticità nella grafia, specie quando si tratti di grafie giovanili, che spesso non uniforma sulla base dei suoi criteri successivi. D’altro canto è un fatto che nell’originale francese la lineetta ci sia. Vero è però che il Ranieri, dove capiva o dove credeva di capire, non disdegnò toccare qua e là qualche virgola, anche se una lineetta (unico caso nei Canti), non è forse la stessa cosa. Si tratta comunque di un puro artificio grafico che non muta in nessun modo quello che é il “respiro” vero del componimento (vale a dire ciò a cui Leopardi badava quando interpungeva, senza essere schiavo di regole assolute) per cui, pur nel dubbio, mi uniformo anch’io ai più recenti editori, sicuro che, anche se io errassi, non modificherei di un iota la lettura.

 

Metro – Strofa libera (in pratica un madrigale) di endecasillabi e settenari, con schema abcDefFgHigih, che il Levi, pur facendo un po’ di confusione, suddivideva non a torto in quattro membri: abcD – efF – gH – igih, da cui si nota subito il ritmo ascendente dei primi tre, che terminano tutti con un endecasillabo. Numerose le assonanze, le consonanze, le allitterazioni, le ripetizioni (dove ricorre 4 volte, come pure le prime tre persone del v. andare, ecc.) che contribuiscono coi loro echi quasi a visualizzare, da un verso all’altro, il viaggio senza posa della foglia. Si notino infine le rime imperfette vento-perpetuamente, volo-ignoro.

 

 

1 — La ragione dell’anonimato ce la narra lo stesso Arnault: «Si ignorò, a tutta prima, chi fosse l’autore della Feuille: all’epoca in cui venne pubblicata in Francia i giornali erano sottoposti a censura, che non avrebbe mai permesso che vi fosse inserita l’opera di un proscritto; così questa favola vi fu annunciata come un brano trovato dai piccoli di madame de la Sablière tra le carte della nonna» (trad. A. F.). Tant’è che la lirica venne attribuita persino al La Fontaine, ed ebbe comunque rapido successo e più d’una traduzione; ciononostante ancora nel 1825 l’Arnault doveva lamentarne la discussa attribuzione: cfr. Oeuvres de A. V. Arnault, Fables et Poèsies diverses, Paris, Bossange père, Rossange frères, 1825, pp. 373 s.

2— «Lo spettatore italiano» 1818, t. XI, p. 55, sed non vidi, ed altri dà diverse indicazioni: seguo il commento ai Canti dei Gallo-Garboli, ma il Branca, col Pasquini, per es. parla di «Spettatore straniero», che è beninteso altra sezione del medesimo periodico. È divertente vedere nell’internet la divaricazione a macchia d’olio di queste notizie contraddittorie; meno divertente è vedere che certi siti, che si ritengono meritori, si approprino testuamente delle parole e addirittura del commento dei Gallo-Garboli senza nemmeno citarlo. Ma ognuno ha la deontologia che si merita, e, peggio, la scienza (o dovrei dire superstizione?) che gli compete.

 


© 18-12/10 — > 17.02.2012