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Se il filomonaldismo, come lo chiamò criticamente il grande Timpanaro, ha sempre avuto numerosi cultori, l’atteggiamento opposto non è stato da meno, pur nel riconoscimento ormai unanime dell’affetto sincero del padre nei confronti del figlio. Traggo il carteggio, che non mi è possibile reperire integro, da A. Avòli, Appendice a M. Leopardi, Autobiografia, Roma, 1883, pp. 278 s., ma lo innesto, con una sorta di allegro e allotrio collage, all’interno del commento ben superiore del Chiarini (Vita di G. L. narrata da Giuseppe Chiarini. Firenze, G. Barbèra, Editore. 1905. p. 42 ss), che cita e riporta le stesse medesime lettere, ma in maniera più abbreviata. Si tratta di documenti rilevanti, che, nella loro immediatezza, raccontano meglio di ogni descrizione lo studio matto e disperato di Giacomo e il triste portato fisico dello stesso; nonché le non indifferenti responsabilità del padre, che, pago ed orgoglioso dei grandi risultati ottenuti dal figlio, non seppe o non volle vedere il drammatico costo che questi pagava per ottenerli. Al di là di antistoriche condanne e/o assoluzioni, la grande poesia leopardiana è figlia anche delle discutibili scelte paterne. E se le parole dello zio Carlo Antici (1), reazionario anche lui come il cognato, ma di orizzonti più aperti e vivaci, hanno senz’altro la nostra approvazione, la loro applicazione, forse, ci priverebbe del più grande poeta italiano dell’Ottocento. Le note in calce sono mie.

 

Carteggio Monaldo – Carlo Antici: estratti dalle lettere:

15 luglio 1813 (Carlo Antici a Monaldo)

7 agosto 1813 (Carlo Antici a Monaldo)

22 luglio 1813 (Monaldo a Carlo Antici)

21 dicembre 1813 (Monaldo a Carlo Antici)

 

[Commento di Giuseppe Chiarini]

 

Quel marchese Carlo Antici, a cui Giacomo aveva mandato la sua lettera in greco, era fratello della contessa Adelaide e, come sappiamo, amico di Monaldo fino dalla infanzia. Benchè, dopo il suo matrimonio con donna Marianna dei principi Mattei, si fosse stabilito a Roma, aveva mantenuto strette e cordiali relazioni con la sorella, col cognato e con la loro famiglia; e andando di tratto in tratto a passare qualche tempo a Recanati nella stagione della villeggiatura, aveva occasione di trovarsi spesso con loro. Ammirando la precocità d’ingegno del piccolo nipote, s’interessava grandemente agli studi e ai progressi di lui, de’ quali Monaldo, che andava orgoglioso di tal figliolo, gli dava frequenti ragguagli.

Questi ragguagli fecero intravedere allo zio i pericoli ai quali la soverchia e non mai interrotta applicazione allo studio esponeva il nipote: e ne scrisse 15 luglio 1813 a Monaldo per metterlo sull’avviso.

«Voi mi dite che il vostro impareggiabile Giacomo studia ora senza maestro la lingua greca, di cui spera di farsi padrone in un anno, e che in seguito vuol studiare l’ebraica. Io mi rallegro con voi, con lui, col sacerdozio cui sembra sin da ora chiamato; ma permettetemi che io vi esterni la mia apprensione per la di lui salute. Il troppo assiduo studio è stato sempre fatale alla durata della vita, e specialmente quando si incomincia, nell’adolescenza. Senza ricorrere a quanto ne dice Tissot nel suo opuscolo Sur la santè de gens des lettres (2), l’esperienza giornaliera ci mostra che molti si accorciano la vita per troppa applicazione. È vero che gran numero di letterati son giunti a decrepita età; ma è vero ancora che tutti questi o per ragione del loro istituto, o per ben ponderato impreteribile sistema hanno sempre alternata la vita sedentaria con qualche genere di abbondante e giornaliera ginnastica. Se i vostri figli, se Giacomo interrompesse la sua logorante applicazione coll’esercizio delle arti cavalleresche, cesserebbero i miei timori. Ma quando veggo e so che il lungo e profondo studio non è interrotto che da qualche sedentaria applicazione di cerimonie ecclesiastiche, io mi sgomento col pensiero che voi avete un figlio ed io un nipote di animo forte e di corpo gracile e poco durevole. Gli antichi (3) ed oggi i moderni ci davano 1’esempio di non trascurare le forze del corpo per quelle dello spirito, ma di farle progredire di passo eguale, altrimenti le infermità fisiche opprimeranno la parte migliore dell’uomo, e converrà pur troppo applicare a tal caso il proverbio: Vale più un cane vivo che un leone morto. Voi dovete perdonarmi queste mie forse ultronee (4) riflessioni, attribuendole a quell’affetto che m’ispira Giacomo per le sue personali qualità e per essere figlio vostro e della buona Adelaide. I progressi poi che il giovane esimio fa nella scienza, vi debbono consigliare di doverlo trasportare da qui a non molto in luogo, dove uomini sommi per dottrina e per carattere dieno colle istruzioni e col circolo un pascolo adeguato a quell’animo. Io trovo che in tutti gli aspetti nessuna città del mondo offre agli studi ed alle inclinazioni di Giacomo tanti immensi vantaggi, quanti questa antica Regina «sempre ne’ casi suoi degna d’impero». Se la Provvidenza dispose che per qualche altro anno una porzione della mia famiglia continui a vivere qui, ascriverò a mia fortuna e consolazione di avere in casa come un figlio il vostro Giacomo. La spesa vostra per lui non ridurrebesi che al vestiario ed al soldo di qualche ripetitore o maestro, e dareste al medesimo una compiuta educazione. Questo certamente dev’essere il primo oggetto di noi padri, né saprei mai perdonarmi di trascurare l’altro assai importante di eseguirlo con economia. Datemi speranza di farlo, e con essa già mi rallegrerete.»

Con questa medesima lettera l’Antici esortava il cognato a mandare Giacomo a Roma presso di lui, dove, pur distraendosi, avrebbe avuto più largo campo ai suoi studi; e con altra del meseCarlo Antici appresso [7 agosto] ripeteva la stessa preghiera e le stesse raccomandazioni:

«Non vi fate vincere dall’eccessivo genio del vostro, o per dir meglio, del nostro Giacomo allo studio. Scuotetelo, a suo dispetto, conservate, invigorite la sua salute con esercizi corporali. Per es. invece di lasciarlo fra i libri nelle prime due ore della sera, portatelo a discutere nel crocchio di Gualandi (5). Ma vi ripeto, non lasciate sotto al moggio quella lucerna; mandatelo presto a Roma dove specialmente nelle scienze, alle quali più inclina, potrà in breve tempo giganteggiare. Se la separazione vi duole, il dovere di padre lo esige, e ne avrete compenso sublime…»

Qual genitore non si sarebbe arreso all’evidenza di queste ragioni, avendo tutti i giorni dinanzi agli occhi il figlio, che andava tutti i giorni deperendo e deformandosi? Monaldo rispose al cognato:

«Dite benissimo rapporto alla troppa applicazione del mio Giacomo. Io ne lo riprendo continuamente, ma egli si è fatto talmente allettare dallo studio che nulla gusta più fuori dei libri, e mi conviene prendere il tono serio per distaccarnelo. Convengo ancora che qualche anno di Roma lo renderebbe quello che non può divenire in Recanati, anzi aggiungo che avendo collo studio e col profitto prevenuta l’età, sarebbe quasi tempo già di mandarvelo; ma questo è per me un tasto troppo sensibile. Privandomi di lui mi priverei nella mancanza vostra (6) dell’unico amico che ho e posso sperare di avere in Recanati, e non mi sento disposto a questo sacrificio. S’egli poi gustasse una capitale, e ne facesse il confronto con questa terra di rilegazione e di cecità, non saprebbe più viverci contento. Lasciamo al tempo il suggerire le risoluzioni opportune, ma per ora il mio sentimento è ch’egli sia meno dotto, ma sia di suo padre, e possa vivere tranquillo e lieto nel paese in cui lo ha collocato la Provvidenza. Intanto rimango penetrato dalla vostra cordialità, e vi accerto che voi sarete l’unica persona cui affiderei questo oggetto per me carissimo, e che, se potessi adattarmi a separarmene, ve lo affiderei fin d’ora senza esitanza, quantunque non senza opposizione di mia moglie.»

Questa lettera, del 22 luglio 1813, è in risposta alla prima dell’Antici: con altra, del 21 dicembre dello stesso anno, in risposta a nuove sollecitazioni di lui, soggiunge:

«Non mi sento ancor disposto a mandare in Roma il mio amatissimo Giacomo. Lasciamo stare che il mio cuore ne soffrirebbe indicibilmente, e che io rimarrei più desolato che mai, perchè alla fine se fosse proprio necessario di mandarlo, dovrei rassegnarmi a qualunque sacrificio; ma io sono più che persuaso che la salute non gli permette troppo lunga assenza da sua casa, dove non gli manca un comodo, e può dare sfogo alla sua passione di studiare. Assicuratevi che la felicità di Giacomo è tutta nello studio, e qui può attenderci meglio che altrove. E che ci avrei guadagnato io, e che ci guadagnerebbe lui se fuori di Recanati dovesse finir di compromettere la sua salute? Amico, voi sapete che io mi sono sacrificato tutto per i figli, e dovrei ora abbandonarli? Non mi regge il cuore, perchè in qualunque altro luogo fuori di casa essi non sarebbero contenti, ed io avrei perduta la mia tranquillità.»

Non c’è bisogno di esser severi nel giudicare la condotta di Monaldo in questo caso; si può anzi spingere la indulgenza fino all’estremo limite ed attribuire veramente all’amor paterno la sua cocciutaggine, ma conviene pur dire che quell’ amore paterno offuscava al padre il lume della ragione.

 

 

1 — Zio di Giacomo e cognato di Monaldo in quanto fratello maggiore di Adelaide. Era infatti il primogenito del marchese Filippo e della contessa Teresa Montani di Pesaro dai quali nacque, in Recanati, il 28 novembre 1772. Amico d’infanzia di Monaldo, fece i primi studi col medesimo precettore, il gesuita messicano don Giuseppe Torres. Studiò poi in Germania, nel Collegio Reale di Monaco di Baviera e in seguito a Heidelberg, per apprendervi giurisprudenza. È interessante notare che le scuole tedesche, a quel tempo, curavano particolarmente l’attività ginnica, e secondo un suo biografo l’Antici vi si segnalò in modo particolare, per cui i buoni consigli del 1813 dati al cognato per la salute del nipote, non appaiono solo parto del normale buon senso. Si sposò nel 1802 con Marianna Mattei, figlia del principe romano Giuseppe e della principessa Giovanna Corsini, e dalla quale ebbe dodici figli molti dei quali gli premorirono. Indi, pian piano si trasferì a Roma, ove, come già in Recanati, ricoprì parecchie cariche pubbliche. Tradusse dal tedesco e scrisse numerose opere di argomento religioso morale e politico, su riviste varie, fra cui la stessa monaldiana «Voce della Ragione». Reazionario come Monaldo, era però più aperto e inserito nel suo tempo che non il cognato; «integro, manieroso, culto e di bello ingegno; ma fiero della sua nobiltà, di natura ambiziosa, vinta un poco dai tempi e dalla pietà»: così lo descrive il cugino Terenzio Mamiani. Morì a Roma il 26 febbraio 1849, per una pleurite contratta qualche giorno prima.

2 — Samuel Auguste David Tissot, medico svizzero (1728-1797), noto per i suoi studi sull’onanismo e sull’epilessia. L’opera citata, propr. De la santé des gens de lettre, era uscita originariamente in latino (Sermo academicus de litteratorum valetudine), nel 1766. Venne poi tradotta in francese e pubblicata dall’autore nel 1775, a seguito di una scorretta e non autorizzata traduzione francese uscita nel 1768. Pure, il titolo spurio di quest’ultima è nel nostro contesto significativo: Avis aux gens de lettres et aux personnes sédentaires sur leur santé.

3 — Doverosa ma ovvia la citazione dell’adagio: mens sana in corpore sano (Iuv. 10, 356, ove però il senso è diverso, e assume valenze di matrice stoica).

4 — Dal lat ultro ‘spontaneamente’, e quindi ‘di propria iniziativa, non richiesto’ (a meno che, come nel linguaggio forense, non prevalga la falsa analogia con ultra, da cui il significato di ‘che va oltre’).

5 — Ragguardevole famiglia di Recanati, ove, come dalla marchesa Roberti, si teneva “conversazione”.

6 — Cioè “poiché mancate anche voi”.

 

Illustrazione — Carlo Antici (Roma, litografia Danesi).

 


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