Autografi leopardiani (inediti, ma non troppo)I due autografi sono stati ritrovati, o meglio presentati per la prima volta nella rivista di Savona «Resine», M. Sabatelli editore, anno XXII, n. 84 (aprile-giugno 2000), pp. 55-62, col titolo: Giacomo Leopardi, Due inediti “puerili”. Presentazione di Giovanni G. Amoretti. Se ne può trovare un estratto nelle News di Leopardi.it [online 30-07/2011], di cui riporto quanto segue:
«da Venezia è pervenuta alla redazione di «Resine» la copia fotografica di due carte autografe, che recano poesie inedite di Giacomo Leopardi. La nostra rivista non dispone di ulteriori notizie sulla fonte di questi manoscritti e sulla titolarità del fondo privato di appartenenza. È plausibile supporre, sulla base di alcune corrispondenze testuali e cronologiche, che i fogli, in origine, facessero parte della piccola collezione del sacerdote vicentino Giovanni Battista Dalla Vecchia, che svolse intorno al 1880 funzioni di istitutore e custode della Biblioteca di Palazzo Leopardi in Recanati, a servizio della Contessa Teresa Teja, cognata del poeta, raccolta conservata oggi, per la parte maggiore, nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia».
Altre ipotesi sono possibili: Franco Foschi ha suggerito fossero parte dell’eredità ricevuta da Teresa Teja, seconda moglie di Carlo, fratello prediletto del poeta; o che possa trattarsi di uno dei tanti disinvolti regali di Paolina Leopardi a chissà chi. Sull’autenticità non esistono però dubbi: la grafia è certamente leopardiana, come pure la tipologia e il formato (mm. 265 x 188, che nel, caso del primo autografo, ricompare in un paio di scritti vergati cinque giorni dopo); inoltre i due componimenti corrispondono perfettamente ai nn. 21 e 38 del primo dei tre Indici delle sue opere compilati dallo stesso poeta e chiariscono più d’un dubbio sorto fra gli studiosi sulle corrispondenze dell’elenco col materiale superstite. Si veda al riguardo un decente articolo, pur con qualche svista, nell’archivio storico del sito del «Corriere della sera» a firma Giulia Borgese, 5 agosto 2000 [online 29-07/2011, ma si parta a leggere da dopo «nel 1810»: prima son erroneamente ripetuti occhiello titolo e sommario]. L’articolo ha il pregio di presentare, anche se non incolonnato, un testo abbastanza corretto dei due componimenti, mentre quello che circola in rete brulica d’errori, perché esemplato su quello molto più comodo, ma molto più scorretto, che il Corriere della sera 30 maggio 2006 [online 29-07/2011, testi nei relativi link] ha ripresentato in occasione dell’asta, del 15 giugno successivo in Roma, nella quale i due originali leopardiani, non più copie ma quelli veri, sono stati venduti. Si leggano in proposito le ottime pagine di Christie’s, che, testo a parte (probabilmente la fonte, già inquinata, del «Corriere» 2006, in quanto esente da un paio di banalizzazioni di quest’ultimo), hanno il pregio di una curata descrizione dei manoscritti, oltre che di una discreta riproduzione degli autografi, di cui fornirò a suo luogo i link diretti: Christies Sale 2490 / Lot 18 [online 29-07/2011] Christies Sale 2490 / Lot 19 [online 29-07/2011].
Assai probabile che i due episodi — prima le copie spedite, la vendita degli originali sei anni dopo — siano collegati: l’anonimo collezionista del 2000 cercava evidentemente una perizia per verificare l’autenticità dei manoscritti in suo possesso, in vista di un’eventuale vendita che di fatto poi si è verificata. Ma veniamo senz’altro al testo e al commento delle due poesie:
I.Alla Signora Con‹tes›sa Virginia Mosca Leopardi
Il foglio, stando a Christie’s, contiene anche l’indirizzo autografo (Alla Nobil Donna La Sig.ra Con.sa Virginia Mosca Leopardi. In Sue mani), ma non saprei dire se nel verso o se sotto la data: in effetti le proporzioni delle riproduzioni di Christie’s e del Corriere [entrambi online 29-07/2011] non corrispondono al formato indicato dall’Amoretti (che non ho sottomano), per cui il manoscritto si dovrebbe presentare come nella riproduzioncina a lato — di rigorosi pixel 265 x 88, come i centimetri indicati dall’Amoretti — ove ho indicato in verde la supposta parte mancante. Che potrebbe essere ben maggiore perché non è detto che la foto non sia stata tagliata anche in senso verticale, anzi, se si fa caso alla piegatura orizzontale del foglio (e mi sembra ve ne si anche una verticale, sulla sinistra) si potrebbe pensare ai pieghi di una lettera, magari anche ceralaccata, procedimento non insolito, in casa Leopardi, per componimenti di questo tipo. Quanto al testo è dubbio il punto e virgola a fine del v. 12, ove altri legge, secondo me a torto, la sola virgola. Come evidente, sono «18 versi martelliani. Ciascun verso è costituito da due settenari, di cui il primo sdrucciolo e il secondo piano, il che conferisce al componimento un andamento cantilenante e ritmicamente cadenzato». Così Raffaele Urraro, Giacomo Leopardi, le donne, gli amori, Firenze, L.S. Olschki, 2008, p. 65, che merita una bella tiratina d’orecchi per aver fatto anche lui un copia e incolla sull’infelice testo del «Corriere», tanto che ne ha pedissequamente riprodotto il saut du même au même al v. 13. (sc. l’errata lettura ipometra odorifera, quell’acqua istessa, con omissione di sarà). L’errore nasce forse da una svista dello stesso Leopardi, che probabilmente copiava da una precedente stesura (è un fatto che l’autografo non presenta pentimenti) e nel dettato interiore potrebbe aver seguito l’ordine logico soggetto-predicato, dimenticandosi la virgola dopo odorifera; in ogni caso essa è necessaria, pena un testo illeggibile. L’Indice autografo del 1816, al punto 38, recita «Alla Sig.ra Cont.sa Virginia Mosca Leopardi. Martelliani 1811. Vol. 1 pag. 1», con errore di memoria, quanto alla data, che un semplice controllo avrebbe evitato. Forse il manoscritto non era immediatamente sotto sua mano, ma in quelle della dedicataria (venuta a mancare a fine 1820); o forse progrediva il disinteresse del Leopardi diciottenne per questi componimenti — si abbia il coraggio di dirlo! — ancor troppo acerbi. A cio rimandano anche gli errori d’ortografia (Appollo, isdegniate), e la stessa grafia sembrerebbe meno curata (solo un’impressione: conosco troppo pochi autografi puerili per poter dare un giudizio puntuale). Sorvolo sul linguaggio coprolalico della poesia, che naturalmente l’Internet ha sciattamente privilegiato. Ben altra cosa, con lo stesso linguaggio, era la lettera alla Marchesa Roberti, che il Binni giudicava «un piccolo capolavoro di humour e di aristocratica disinvoltura». Il componimento ha un pendant nella Lettera Bernesca Ditirambica, con lo stesso titolo dell’inedito (in Maria Corti, Entro dipinta gabbia, p. 464 s.), pubblicata fin dal secolo scorso ma di cui s’è smarrito l’autografo. Lavoro ugualmente datato nell’Indice al 1810 (n. 24), ma che stando al Piergili, che lo diede alle stampe nelle Poesie minori, 1889, p. 13 s., recava invece la data 1811 (cfr. Piergili, Nuovi documenti, 1892 p. 173). Ciò spiegherebbe l’errore di memoria cui si è accennato, ovvero una banale inversione, e non, come vorrebbe l’Amoretti, l’effetto di stesure successive. Ma inversione quantomeno strana, perché quest’ultimo componimento, squisitamente polimetro, è decisamente superiore, sul piano estetico, ai 18 martelliani dell’anno precedente. IIAll’Ill‹ustrissi›mo SigreDon Sebastiano Sanchini
L’accento grave al v. 6 (studiàre), è in realtà indicazione della dieresi, che mai Leopardi connota con i due puntini soprascritti (cfr. Maria Corti, Entro dipinta gabbia, p. 7). Si tratta di 40 versi (in realtà 38: gli ultimi due sono piuttosto uno scherzo aggiunto ad indicar data topica e cronica, e separati anche spazialmente dai precedenti) polimetri, suddivisi in strofe di inegual misura: ottonari, quinari e decasillabi, 32 a rima baciata, ma con sprezzature (che ritroveremo nel Leopardi maturo) ai vv. 23-26, a rima incrociata, e 29-32, a rima alterna. I vv. 15-16 e 37-38 sono sdruccioli. Sono indirizzati al precettore di Giacomo e del fratello Carlo tra il 1807 e il 1812, don Sebastiano Sanchini da Mondaino (Rimini). Grazie all’ultimo verso possiamo ora circoscriverne la datazione all’ottobre del 1810, in quanto il solito Indice, ove sono indicati al n. 21, recita: «Al Sig. Don Sebastiano Sanchini nostro Maestro cangiandosi l’ora della nostra scuola. Lettera Bernesca Ditirambica. 1810. Vol. 1 pag. 2»; che la citata pagina di Christie’s così spiega: «l'occasione del componimento consiste nella decisione da parte sua [sc. del Sanchini], nell'ottobre del 1810, di cambiare l'orario giornaliero di lezione, aggiungendo a esso anche tre ore serali, in vista dell'annuale saggio d'esame previsto per il successivo mese di febbraio». Quanto a quel «Vol. 1 pag. 2, in effetti, come può agevolmente intuirsi dalla descrizione e dalla riproduzione del sito di Christie’s [online 29-07/2011], si tratta di un foglietto piegato a mezzo, a costituire due carte:
Anche questa è copia in netto o quasi, e non si eleva certamente sull’altra; ma è viceversa interessante per la sperimentazione metrica, e per i disinvolti e allegri cambi di tono, conformi a quelli metrici. Quanto al «Corriere», riproduce solo la carta 1r [online 29-07/2011], ma a miglior risoluzione.
Ad maiora. |
© Angelo “quixote” Fregnani.
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29-07/2011 —> 02.08.2011