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Nota testuale – La composizione risale al 1816, come attestato nel secondo degli Indici leopardiani autografi (AN, CL XV, 4) risalenti al 16 novembre di quell’anno, ove al n. 17 si legge «Le rimembranze Idillio in isciolti. — 1816.», sotto la rubrica, di cui per altro l’idillio è unico esemplare, «Riprovate assolutamente dall’autore.». La prima edizione a stampa è dovuta al Cugnoni 1880, esemplata sopra una copia recanatese di mano della sorella Paolina. Il primo a servirsi dell’autografo napoletano (AN, CL XV, 30) fu il Mestica 1899, ma con esclusione degli ultimi nove versi, che allora non erano stati ancora identificati perché letteralmente sommersi in mezzo alle glosse del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in quanto il poeta, sempre a corto di carta, soleva utilizzare tutto quel che gli capitasse sotto mano. Edizione non infame, che però qualche gherminella la presenta; per cui riportavo in precedenza il testo del Flora, che pure dichiara di rifarsi all’autografo, ma nutrivo sulla sua correttezza alcuni dubbi: dubbi che, grazie alla recentissima ed. Gavazzeni (novembre 2009) e alla conseguente visione delle riproduzioni degli autografi, solo in parte sono rientrati, perché dobbiamo purtroppo estenderli allo stesso Gavazzeni, che presenta delle pecche, si può dire fin dalla prima riga, ove non è per nulla chiaro quel che s’intenda per «Manoscritto autografo di 5 carte», quando poi le carte riprodotte sono due e mezza, e della mezza il verso nemmeno vien descritto. Peggio, nel solo testo vi sono una decina d’errori, di cui solo tre o quattro possono invocare a discarico la trascrizione diplomatica. Nondimeno alcune puntualizzazioni e alcune proposte sono felici, e correggono le sviste dei precedenti editori (v. 11 cosa, v. 103 riaprirgli 115 mi apprestavi 133 piangea. Tra 139 tuo, ma già il Cugnoni leggeva esattamente tre di questi luoghi). Per tutto ciò, assodato che anche il Flora non era privo di mende (vv. 7, 11, 69, 103, 115, 133, 139), preferisco presentare il testo di mio, sulla base della riproduzione dell’autografo. Per non complicar la vita ai lettori internettiani non particolarmente agguerriti lo presento in due versioni: html, con commento storico-estetico essenziale; pdf con esteso commento filologico.
Metro – Endecasillabi sciolti. Da notare il termine idillio, usato già nelle Puerili, e nelle traduzioni da Teocrito e Mosco (ma, per la suggestione, il parente più prossimo andrà probabilmente ricercato negli Idilli di Salomon Gessner). |
Le Rimembranze.
Idillio.
Era in mezzo del ciel la curva luna, E di Micon la povera capanna Sol piccola da un lato ombra spandea. Chino sul destro braccio, ed appoggiando Alle ginocchia il cubito, dell’uscio Sul facile gradin sedea Micone. Egli era tristo, e muto. Il tenerello Dameta il figliuolin, che ad ogni istante Temea la mamma udir chiamarlo al sonno, Scherzavagli d’intorno, e saltellando La mano gli prendeva, e or d’una cosa, Or d’altra il ricercava: un panierino Mostravagli talor da lui tessuto, Talor raccolto un fresco fior, talora Nella socchiusa man lucido insetto Sorpreso in aria da sagace colpo: E il rimirava in faccia, e avidamente Plauso chiedea col guardo, e col sorriso. Quel, serio, e taciturno a stento ai detti, O a fuggitivo riso i labbri apriva. Alfin proruppe:
Micone.
O amabile Dameta, Dì, figlio mio, del tuo maggior fratello Non ti ricordi tu? più non rammenti Il tuo Filino? Ei t’ha lasciato, e un anno È che nol vedi più. Le prime rose Spuntavano, com’or, su quella fratta, Quando, i suoi giuochi abbandonati, il vidi Seder pallido, e muto. Io gli chiedea: Figlio, perchè qui sei? perchè non giuochi? Perchè non vai con tuo fratello al prato? Su scendi a sollazzarti. Hai forse male? No, padre, ei mi dicea, no, nulla io sento, Ma stanco io sono, e qui riposo; or ora Tornerò con Dameta a trastullarmi. Così sempre ei dicea, ma sempre il male Più gli apparia sul viso. Un dì di Festa Alfine ei si levò l’estrema volta, Poi più non sorse. Oh come, allor che a casa La sera mi vedea tornar dal campo, Lieto in chiamarmi mi tendea le mani, E la mia mi baciava, e mi chiedea Se stanco fossi, e sempre a se vicino M’avria voluto. Un giorno alfin (dimani Quel dì funesto riconduce il sole) Mi levai, corsi a lui, chino sul letto Gli diedi un bacio, e come stasse il chiesi. Ei più non rispondea: l’occhio mi volse Cui luccicante lacrima copria: Ma nulla dir potè, più non dischiuse Il moribondo labbro. Un opportuno Rimedio al male, il vecchio Alcon, quel Saggio, Cui sì spesso vedesti, e cui sì spesso Della villa consultano i pastori, Indicato ci avea. Per procacciarlo Impaziente alla città mi volsi. Saliva il sole in cielo, e la marina Di lontano splendea: ma la campagna Era tacita ancor. Passai non lungi A quell’alto palagio, che alla luna Or vedi biancheggiar dietro alle piante, Colà vicino alla maestra via. Della villa i Signori eran sepolti Nel dolce sonno del mattin. Pur vidi Aperta una finestra, intorno a cui Sporgea ferrea ringhiera, e dentro l’ampia Camera Signoril, sul pavimento E il lucido apparato, che l’opposta Parete ricopria, dal sol dipinta L’immagine mirai della finestra: A cui dinanzi con negletta veste Un dei servi passar vidi, che intento Sulla scopa pendea. Quanto lugubri Per me fur quei momenti! Alla cittade Giunsi, tolsi il rimedio, e qua tornai. Fra speme, e fra timor, tremante, incerto Entrai sospeso.. Morto era Filino. Pallido il rimirai: finito io vidi Il respirar sulle gelate labbra: Serrate le palpebre, e rilucenti Pel ghiacciato sudor l’umide chiome. Ahi mio Filino! Da quel tempo ancora Quel mesto orror, quei funebri momenti, Quel tristo dì dimenticar non posso.
Dameta.
Ben men sovvengo anch’io: che nel levarmi Quella mattina, oltre l’usato io vidi Trista la mamma. Al mio Filino io tosto Correr voleva: ella il vietò, mi disse Che ancor dormiva, e uscir mi fece al prato. Ma nel tornar con festa, e saltellando Pianger la vidi. Io m’acchetai, pian piano Le venni appresso, e presale la gonna, Mesto le dimandai perchè piangesse. Ella china abbracciommi, ed appoggiando Alla mia la sua fronte, ah figlio, disse, (ahi, mi rispose) Caro Dameta mio, Filino è morto. Allor piansi ancor io. La mamma invano Trattenermi volea: poi ch’ella il guardo Rivolse altrove, al letticciuolo io corsi Del mio caro Filin. Fiso dapprima Il rimirai, poi sullo smorto viso Mille baci gli diedi, e colla mano Toccai la fredda guancia, e gli occhi chiusi Di riaprirgli cercai. Deh quanto io piansi In veder come più non si movea! Filin! fratello! io gli diceva, oh Dio! Tu non mi vedi più.. Che far giammai Potrò senza di te? Quanto t’amava! Quanto m’amavi! alla selvetta, al prato Sempre eravamo insieme: oh quante volte Corremmo a gara, e a gara tra le foglie Cogliemmo i più bei fior! quante sull’erba La sera assisi al raggio della luna, Cantammo insiem! Tu m’insegnavi il suono Sopra le canne a modular, che spesso Di tua man mi apprestavi; o a far panieri Per empirli di fiori; o a lanciar sassi A un albero lontan. Spesso nel bosco Tendemmo insidie agli augelletti, e insieme Ci partimmo la preda. Entro un canneto Spesso nascosto io l’amor tuo cercai Deludere un momento: ansioso allora Tu di me givi in traccia. Il riso mio, O lo scrosciar delle vicine canne Mi tradiva talor: tu mi scoprivi, E lieto a me correvi, e in abbracciarmi Del mio crudo piacer mi riprendevi. Oh quanto ci amavamo! Ah tutto tutto È finito per noi. Caro fratello Tu mi lasciasti.. Al giuoco, in casa io sempre Solo restar dovrò? No, che la vita Menar più non potrei.. Caro Filino, Ah tu moristi, ah morir voglio anch’io. Egli piangea. Trale ginocchia il prese Il buon Micone, e gli asciugava il pianto, E consolando il gia.
Micone.
Diman condurti Alla cittade io vo’, diman la tomba Ti mostrerò di tuo fratello, e voglio Che venga insiem con noi la mamma ancora. Ah figlio! ah tu sei morto! il padre tuo, Che sì t’amò, dimenticar sapresti? |
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© Angelo “quixote” Fregnani.
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25-04/2010—> 15.10.2012