Home | |Varie | | Appressam. | | Frontesp.

Postille alla Cantica

Il titolo non è ovviamente leopardiano, ma si deve al buon Rigoni, che ne dà, nei «Meridiani» Mondadori una sintetica ma precisa notizia. Non altrettanto può dirsi per la riproduzione a testo, che segue in maniera illogica l’incolonnamento degli autografi, forse sulla scia di una non perfetta Posfortunato (non vidi). Al di là di questo lieve difetto l’edizione è discretamente corretta, e la più precisa fino allora apparsa negli opera omnia leopardiani. La recente Gavazzeni, malgrado l’apporto delle riproduzioni digitali, che Rigoni sicuramente non aveva a disposizione, non ha fatto molto di più.

Si offre a testo una lettura personale, che riflette finalmente la “formattazione” originale. Le due parentesi quadre nella seconda postilla espungono due punti leopardiani lasciati, come spesso capita al Nostro, subito dopo precedenti lezioni barrate. A testo si correggono tre imprecisioni, per altro minime (1), dell’ed. Gavazzeni.

 

[I = AN XV.1, c. 16r ad med.]

 

Nella tirannia si potrà fare un’apostrofe all’Italia agl’italiani, deplorare i guasti fatti ultimamente da’ francesi, ricordare le grandezze dell’italia quando era libera e come sia impossibile ogni grandezza d’animo di spirito d’azioni ec. sotto i tiranni: (Dove le belle vostre arti son gite? ec. Perchè ora non più ec. ec.?) che col ritorno dei monumenti d’arte non è spenta di gran lunga la tirannia e l’oppressione fra noi italiani ec. Nell’Amore o dove tornerà meglio: qual vidi trafitto da ferro, qual grondante sangue, quale ec. ec.

 

[II = AN XV.1, c. 16r ad fin.]

 

Lettori

Perchè quello che si dice in due (mi pare in due soli) luoghi di questa Cantica non vi paia discordante da quello che l’autore ha detto nelle Elegie[,] (o nella terza Elegia) ....... (si portino i versi) sappiate che questa, contuttochè non sia stata pubblicata prima d’ora, nondimeno fu scritta tre anni addietro[.](se saranno tre anni).

 

[III= AN XV.1, c. 16v]

 

Amerai tu? Ecco ec.

Io diceva fra me di non voler essere uno di quelli. Non mi piacerebbe la fortuna di questi non quest’altra ec.

Apostrofi di quando in quando ai personaggi veduti. E te vidi ec. misero ec.

A che ti gioverebbe amare studiare acquistar gloria ec.

Il 2. Canto potrà mostrare solamente una gran turba di gente, cominciare come prima, continuare coll’episodio dell’amor mio, poi la parlata dell’Angelo versante in genere sopra l’ampiezza di quella turba senza bisogno di specificare nessuno, l’universalità ed onnipotenza dell’amore, dolcissimo dolore, amarissimo diletto ec. poi introdursi un altro episodio di qualche personaggio che apparisca e terminare come al presente. La parlata dell’Angelo dovrà più tosto mettersi innanzi all’episod. dell’amor mio, perchè che nel caldo primo della visione io mi ponga immediatamente in una eterna digress. non è conveniente. Dirà l’Angelo terminando: tu saresti sempre schiavo d’amore, che il cuor tuo non potrebbe resistere ec. e per amar sei nato ec. e qui si attaccherà l’episod. dietro al quale verrà subito quello d’Ugo che s’introdurrà dicendo che la mestizia del suo volto, la sua età pari alla mia, il sapere ch’egli era infelice per amore e ricordarmi però dell’amor mio, mi destarono una certa simpatia per lui che non potei fare che non ne domandassi all’Angelo ec. L’altro episodio di cui si parla di sopra non è più necessario e si potrà più tosto metterne un simile in qualcuno de’ seguenti Canti. Bisogna a ogni tratto venir richiamando l’attenzione al punto principale che è di mostrare quante infelicità io proverei nella vita in qualunque stato. p. e. nella tirannia dire questo essere il fine che si propongono, quasi ultima e somma e inarrivabile felicità, molti uomini, cioè di regnare: or vedi che miseria è la vita se anche il più bello stato è così empio e infelice: e di più tu dovresti viver soggetto a questo mostro della tirannia ec. nell’Errore: che ti gioverebbe cercare con ogni studio il vero? vedi che miserabile esito hanno avuto le ricerche di questi ec. Nell’Obblio: che ti varrebbe aver consumato tutta la tua vita negli studi e nelle fatiche e in cercar gloria se poi saresti dimenticato? e quanti degnissimi quanto qualunque altro di ricordanza che ora non se ne sa pure il nome; e come facilmente cade la fama sopra i men degni per favore di casi e di circostanze, per difetto di cui manca poi ai più degni ec.

 

[IV= AN XV.29]

 

Cantica. Osservazioni.

La scrissi in undici giorni tutta senza interruzione e nel giorno in cui la terminai, cominciai a copiarla che feci in due altri giorni. Tutto nel Novembre e Decembre del 1816.

Canto 3. Sì che lor faccia è presso d’ogn’immondo. Di questo neutro è difficile trovare esempio ed io lo usai senza sapere che ce ne avesse alcuno. Poi ne trovai uno di Dante ed è questo. Inf. Canto 4. Per tai difetti e non per altro rio Semo perduti.

Quando scrissi non avea letto Dante che una sola volta e mi fece gran meraviglia il trovar poi nel 19. Purg. data agli avari la stessa pena di giacer colla faccia volta in giù che loro avea dato io nel principio del 3. Canto senza saper nulla di quel luogo.

 

 

1 — Scrivere «ec.ec.» invece di «ec. ec.» è senz’altro imprecisione minima, ma che non si può giustificare nella mancanza di spazio fisico nel manoscritto originale. Le riproduzioni digitali hanno reso inutili le edizioni puramente diplomatiche ma anche prima di esse dall’editore si richiedeva una lettura non feticistica, bensì intelligente, e con un minimo di uniformità; va bene segnar «quì» con accento nelle Puerili, ma non si può scrivere «v’ è» o «ch’ a» con spazio intermesso: si deve scrivere «v’è» e «ch’a» , e non si può oscillare fra le due tipologie perché il manoscritto (o la stampa) ha il mal di Carlo Alberto. Ma se anche non tentennasse, e fosse ferma alla prima lezione, l’editore moderno dev’essere fermo alla seconda. Non perché una tipologia grafica non vada rispettata: si veda appunto il caso degli accenti: giusto segnare «quì» nelle Puerili, meglio respingerlo nell’Appressamento della morte (in due manoscritti coevi sette occorrenze contro una), neanche a parlarne in seguito, a uso ormai consolidato. Ma non è mai corretto scrivere «v’ è», che nelle stampe dell’Ottocento, in omaggio all’eleganza tipografica, rimane pressoché costante, ma non ha quello che si definirebbe in Linguistica rilevanza fonologica. Vale a dire, mentre vediamo una cosciente opposizione logica e storica nello scrivere «quì» o «qui» (salvo qualche sporadico accidente come il caso isolato dell’Appressamento), io non riesco a vedere nessuna volontà cosciente di differenziare «ec.ec.» da «ec. ec.». Tornando alla Linguistica, il quì pro qui è un caso di langue, quest’ultimo invece è un caso di parole (e che De Saussure mi perdoni l’eresia …). E quindi l’editore, se tale veramente è, non ne deve tener conto. Quanto poi agli eruditi che son soliti scrivere «’ncontr’ a», o «perch’ a» chiedo solo: ma «incontr’ », «perch’ » che sono, un troncamento? Si provino a leggerli singoli e poi mi dicano. Ma se non sono troncamenti lo spazio come si giustifica? non sono un esperto di grammatica, forse m’è sfuggito qualcosa?

© 10-12/2010—> 12.12.2010