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Abbozzi
Bibliografia

 

 

Nota testuale – La composizione risale al 1818, forse a metà anno, occasionata da una nuova visita di Geltrude Cassi Lazzari a Recanati, dopo la prima descritta così intensamente dal Leopardi nel Diario del primo amore. Dal titolo di Elegia quarta, riportato sull’autografo (AN, XV, 2), deduciamo che esso fosse parte di un più vasto progetto, poi non realizzato, di cui ci restano alcuni abbozzi, dai quali risulta anche che il progetto si innestava nel rifacimento della cantica L’Appressamento della morte. L’elegia venne pubblicata, nell’ed. bolognese dei Versi, di seguito all’Elegia I, ovvero quella che diventerà, già nell’edizione fiorentina dei Canti, Il primo amore. L’Elegia II non sarà invece presente nell’ed. Piatti, ma ne verranno ripresi, con qualche modifica, i vv. 40-54 nella Starita 1835, a formare il frammento XXXVI (poi XXXVIII nella lemonnieriana del ’45). Fra i problemi che l’autografo pone, rilevante è quanto già notava il Moroncini nell’ed. critica dei Canti: «si noti che dal verso 40 in poi nell’autografo i versi cominciano un po’ più a sinistra dei precedenti, fino al termine dell’Elegia; il che denota che l’A. li volesse anche materialmente distinguere e separare dai primi; e forse intendesse approvare tutto il resto dell’Elegia fino alla fine». Lo stesso Moroncini pubblicò per la prima volta i vv. 83-91, qui dati in calce, presenti nell’autografo (dalla cui riproduzione li ho esemplati) ma che nella stampa bolognese erano stati omessi. Testo secondo B26 (=Versi), seguita pedissequamente dall’ed. critica dei Canti del De Robertis, mentre il testo dell’ed. critica dei Canti del Gavazzeni contiene alcune sviste. Viceversa buona la trascrizione in rete della «BibIt». Per notizie storiche sulla Cassi, e sulle composizioni leopardiane che a lei si riferiscono, fondamentale è ancora il Mestica, Studi leopardiani 1901. Di mio aggiungo solo, ma sono certo di non esser il primo a notarlo, che questa lirica sviluppa un tema che sarà più volte ripreso, e con maggior spessore, dal Leopardi: quello dell’amore e della morte.

 

Metro – Terza rima. Non a caso lo stesso metro del Primo amore e dell’Appressamento.

 

ELEGIA II

 

Dove son? dove fui? che m’addolora?
Ahimè ch’io la rividi, e che giammai
Non avrò pace al mondo insin ch’io mora.

Che vidi, o Ciel, che vidi, e che bramai!
Perchè vacillo? e che spavento è questo?
Io non so quel ch’io fo nè quel ch’oprai.

Fugge la luce, e ’l suolo ch’i’ calpesto
Ondeggia e balza, in guisa tal ch’io spero
Ch’egli sia sogno e ch’i’ non sia ben desto.

Ahimè ch’io veglio, e quel che sento è il vero;
Vero è ch’anzi morrò ch’al guardo mio
Sorga sereno un dì su l’emispero.

Meglio era ch’i’ morissi avanti ch’io
Rivedessi colei che in cor m’ha posto
Di morire un asprissimo desio:

Ch’allor le membra in pace avrei composto;
Or fia con pianto il fin de la mia vita,
Or con affanno al mio passar m’accosto.

O Cielo o Cielo, io ti domando aita.
Che far debb’io? conforto altro non vedo
Al mio dolor, che l’ultima partita.

Ahi ahi, chi l’avria detto? appena il credo:
Quel ch’io la notte e ’l dì pregar soleva
E sospirar, m’è dato, e morte chiedo.

Quanto sperar, quanto gioir mi leva
E spegne un punto sol! com’egli è scuro
Questo dì che sì vago io mi fingeva!

Amore, io ti credetti assai men duro
Allor che desiai quel che m’ha fatto
Miser fra quanti mai saranno o furo.

Già t’ebbi in seno; ed in error m’ha tratto
La rimembranza: indarno oggi mi pento,
E meco indarno e teco, amor, combatto.

Ma lieve a comportar quello ch’io sento
Fora, sol ch’anco un poco io di quel volto
Dissetar mi potessi a mio talento.

Ora il più rivederla oggi m’è tolto,
Ella si parte; e m’ha per sempre un giorno
In miseria amarissima sepolto.

Intanto io grido, e qui vagando intorno,
Invan la pioggia invoco e la tempesta
Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggia ne la foresta,
E muggia tra le nubi il tuono errante,
In sul dì, poi che l’alba erasi desta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante,
Parte la donna mia; pietà, se trova
Pietate al mondo un infelice amante.

Or prorompi o procella, or fate prova
Di sommergermi o nembi, insino a tanto
Che ’l sole ad altre terre il dì rinnova.

S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto
Posan l’erbe e le frondi, e m’abbarbaglia
Le luci il crudo Sol pregne di pianto.

Io veggio ben ch’a quel che mi travaglia
Nessuno ha cura; io veggio che negletto,
Ignoto, il mio dolor mi fiede e taglia.

Segui, m’ardi, mi strazia, a tuo diletto
Spegnimi o Ciel; se già non prima il core
Di propria mano io sterpomi dal petto.

O donna, e tu mi lasci; e questo amore
Ch’io ti porto, non sai, nè te n’avvisa
L’angoscia di mia fronte e lo stupore.

Così pur sempre; e non sia mai divisa
Teco mia doglia; e tu d’amor lontana
Vivi beata sempre ad una guisa.

Deh giammai questa cruda e questa insana
Angoscia non la tocchi: a me si dia
Sempre doglia infinita e soprumana.

Intanto io per te piango, o donna mia,
Che m’abbandoni, ed io solo rimagno
Del mio spietato affetto in compagnia.

Che penso? che farò? di chi mi lagno?
Poi che seguir nè ritener ti posso,
Io disperatamente anelo e piagno.

E piangerò quando lucente e rosso
Apparrà l’oriente e quando bruno,
Fin che ’l peso carnal non avrò scosso.

Nè tu saprai ch’io piango, e che digiuno
De la tua vista, io mi disfaccio; e morto,
Da te non avrò mai pianto nessuno.

Così vivo e morrò senza conforto.

 

 

 

 

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segue in AN:


O sol, vedesti in tutto il mondo mai
Tanto immenso dolor quant’io sopporto?

Ed ella m’abbandona; e tu che fai,
Misero? come l’alma anco ti resta?
Solo, in tanto desir come vivrai?

Gelo in mirar l’orribile tempesta
Che m’aspetta, e gli affanni e i pianti e l’ire.
O sventurato! Ei non può far che questa

Fera vita io sostenga: io vo’ morire.

 

 


 

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© 25-04/2010—> 01.06.2010