È del maggio di quest’anno (2011) la clamorosa notizia del ritrovamento non solo di un autografo, ma addirittura di un’ode di 89 versi finora ignota del grande Recanatese, L’Italia agli italiani. Il supposto autografo, che in realtà non è un’ode (i cosiddetti giornalisti questo sanno e questo danno), ma un carme in endecasillabi sciolti, era incollato dietro un’edizione dei Canti del 1836, ovvero la mezza contraffazione, non autorizzata, della Starita, edita a Firenze dal Piatti, ed è stato custodito per oltre quarant’anni da Nicola Ruggiero, bibliofilo leopardiano davvero di vaglia — 6.000 volumi! — come ci illustra una bella pagina web a lui dedicata [online 29-07/2011].
Della notizia hanno parlato, più o meno corrivamente, ‹www.adnkronos.com›, i siti del «Giornale», del «Corriere della sera» ecc. N’è venuto fuori persino un libro: Lorenza Rocco Carbone, L’Italia agli italiani. Versi inediti veri o presunti di G. L., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011, pubblicato in aprile e ufficialmente presentato in Firenze ai primi di maggio. Si veda in proposito il seguente file pdf [156 KB, online 29-07/2011]: che oltretutto contiene la riproduzione dell’ultima pagina della composizione). Ma se ne può trovare anche la prima pagina [online 29-07/2011] purtroppo a bassissima risoluzione.
Partiamo, come sembra opportuno, da quest’ultima riproduzione, non facilmente decifrabile. Ma grazie alle citazioni sparse qua e là se ne possono almeno interpretare (mi si passerà qualche imprecisione) titolo sottotitolo esergo — se esergo è — e incipit:
L’Italia agli italiani
Sulle soscrizioni aperte in Milano per
un monumento funebre alla Malibran
Religïose, eruditrici, austere
sorgan le tombe e come altar sian sacre
O figli miei: de’ miei sfrondati allori
Del lacerato manto, della infausta
Corona mia, delle divine membra,
Ragion finora a voi non chiesi ecc. |
Quindi tema tipicamente foscoliano, presente nei primi canti leopardiani (in particolare Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, datato settembre-ottobre 1818) ma totalmente estraneo agli ultimi: basti pensare alle allucinate tombe sorcine dei Paralipomeni. La Malibran morì nel settembre del 1836, per cui l’autografo, se autentico, sarebbe forse l’ultima composizione leopardiana(!); in un tempo in cui il poverino non riusciva ormai a scrivere più di tre righe di suo pugno (e la grafia del carme non è certo del suo sodale Antonio Ranieri). Senza contare il richiamo a religione e altari, in linea con celebri falsificazioni d’impronta cattolica, da quelle "storiche” del Curci a quelle “autografe” del Cozza-Luzi. Ma il filologo formale, pur senza riuscire a leggere molto della riproduzione, capisce subito l’inghippo: l’incolonnamento e il gioco degli spazi è totalmente avulso dall’usus leopardiano, e soprattutto il primo verso O figli aggetta invece di rientrare, “formattazione” completamente abbandonata già nel 1819, salvo riprenderla, rapsodicamente e affettivamente, per qualche componimento, quello sì genuino, ma giovanile.
Prove più concrete si trovano nella riproduzione dell’ultima pagina, questa ben leggibile: sorvoliamo pure sul solito aggetto di strofa (v. 79: Nè madre afflitta ecc.); la grafia è palesemente contraffatta, la ‘A’, la ‘L’, la ‘P’, la ‘F’ maiuscole ecc. sono palesamente apocrife, così come la ‘d’ minuscola (la cui asta dovrebbe chiudersi ad occhiello) e la firma. Non parlo del contenuto, insipido e inaccettabile; noto solo la grafia meraviglia (v. 86) quando nei Canti non ne troviamo nessuna, a fronte di cinque maraviglie; per non parlare delle parentesi, così rare ed invise al poeta, ma che qui starebbe ad ammanirne due nell’arco di cinque versi. Infine, e ciò taglia la testa al toro, al v. 81 invidïai e forse al v. 87 Prezïoso. Leopardi non usa mai mai mai (nemmeno nelle Puerili) la dieresi.
Perfettamente inutili ulteriori esami. Resta da ipotizzare la data della falsificazione. Terminus post quem, è, come si è detto, la morte della Malibran, mentre la prima riproduzione nota di poesia leopardiana è il manoscritto vissano dell’Infinito, risalente al 1845, negli Studi filologici dei Pellegrini-Giordani. Considerato il tema, evidentemente legato alla lotta per l’unità d’Italia, è ammissibile datare la falsificazione a quegli anni. Stante la sua pessima qualità, inficiata da una conoscenza molto approssimativa della grafia leopardiana, sembrerebbe l’ipotesi più probabile.
Chi voglia saperne di più, acquisti il libro della Rocco Carbone. Io preferisco una serata in pizzeria. Anche perché, quasi lo dimenticavo, Leopardi, lettere a parte, non si sottoscrive mai: l’autore il nome lo mette prima o dopo il titolo; alla fine sono gli altri che lo mettono. E quindi, paradossalmente, certo niente autografo, ma anche niente falso, e vero anche l’autore, proprio “Leopardi”: ce lo dichiara proprio l’Epistolario di Giacomo, in una lettera a lui diretta il 28 marzo 1837, scritta da Ferdinando Maestri:
«Hanno scambiato con voi un Pietro Leopardi, che colà a Parigi diede alla luce un centinaio di sciolti pel monumento che si rizza in Milano alla Malibran. M’accorsi leggendo che i versi non erano vostri. Cercai com’era la cosa; e Giordani scoperse che voi eravate sbattezzato e di Giacomo divenuto Pietro».
Già, Pier Silvestro Leopardi (1797-1870), patriota ed esule in Francia dal 1833 al 1848, poi senatore del Regno. Quanto ai suoi versi, si tratta di un libriccino di dodici pagine: L’Italia sulle soscrizioni aperte in Milano per un monumento funebre alla Malibran. Sciolti di Pietro Leopardi, Parigi, Baudry, 1836. Il carme può leggersi anche nel «Giornale degli eruditi e dei curiosi», Padova, Crescini, 1884, III, p. 15 s., forse più facilmente reperibile. Il nostro manoscritto è dunque una copia, probabilmente scritta a ridosso della prima edizione, e ovviamente non autografa, perché ne sbaglia l’attribuzione (ci cascò anche Paolina Leopardi, che ne aveva trovato il titolo in qualche catalogo, e leggendo «P. Leopardi» pensò ad un errore di stampa; ma avuti i versi fra le mani, capì subito che non potevano essere del fratello). Sempre nel 1837, Atto Vannucci, citandone l’esergo, richiamava gli Italiani al culto severo dei sepolcri: predicendo che altrimenti, per l’Italia «sarà sempre lontana anche la speranza della salute finché non cessa anche qui l’idolatria agli dei di legno [sc. Maria Malibran] che c’inviò lo straniero: idolatria che offusca la mente e fa camminar nelle tenebre, e non solamente fa gli uomini schiavi, ma meritevoli di divenirlo». Un discorso che l’Italiano d’oggi, esaltato da miti e divi angloamericani, ha dimenticato. Ma si sa, prima o poi chi dimentica il passato è obbligato a riviverlo: ne sa qualcosa la Rocco Carbone, che maledirà mille volte d’aver titolato il suo libro Versi inediti.
Bibliografia:
Il «Giornale degli eruditi e dei curiosi», loc. cit., p. 15, offre anche un’accurata descrizione della prima edizione: «L’Italia | sulle | soscrizioni aperte in Milano | per | un Monumento funebre | alla Malibran. | Sciolti | di | Pietro Leopardi || Parigi. | Chez Baudry, libraire, | 9, Rue de Coq, près le Louvre, | et Teophile Barrois, fils, libraire, | 14, Rue de Richelieu; | et che tous le principaux libraires de Paris | 1836. Forma un opuscoletto di dodici paginette, in sedicesimo, che accompagna una strana litografia allegorica».
La lettera del Maestri in Giacomo Leopardi, Epistolario, voll. 2, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998, vol 2°, n° 1960, p. 2098, cfr. p. 2378.
La citazione del Vannucci, datata 1 maggio 1837, appartiene al Giornale manoscritto redatto in collaborazione con Giuseppe Arcangeli, e la traggo da Francesco Rosso, Atto Vannucci, (1810-1849), da ricordi dei contemporanei e memorie di viaggi e dallo spoglio di 1500 lettere inedite, Torino. S. Lattes & C. Firenze; R Bemporad e figlio, 1907, p. 79.
Per Paolina si veda Leopardi a Pisa, a cura di Fiorenza Ceragioli, Milano, Electa 1997, p. 343, ove trovasi un estratto di una sua lettera a Vittoria Lazzari, che le aveva inviato il carme da Pisa: «Ti ringrazio delle premure che ti sei prese per cercare i versi del nostro Giacomo sulla Malibran. Ma lo sbaglio l’ho fatto io. Vedendo annunziato nel catalogo di Ruggia i versi sulla Malibran di P. Leopardi, ho creduto che il P dovesse essere un G. Tanto più che questo Pietro Leopardi non è conosciuto. Ma nel leggere i versi che mi hai mandati (ed eran proprio quelli che ho veduto annunziati), vedo bene che non son di Giacomo, ma resta a sapersi come abbian preso il suo cognome - cosa che non si saprà mai». Testo completo in Paolina Leopardi, Lettere inedite, a cura di Giampiero Ferretti, introduzione di Franco Fortini, Milano, Bompiani, 1979.
Infine, sappiamo anche che in una lettera del 12 novembre 1869, dell’abate Giovan Battista Dalla Vecchia (bibliotecario, a servizio di Teresa Teja, in casa Leopardi nel secondo Ottocento), è allegato un manoscritto, «forse di mano di Dalla Vecchia, intitolato “Poesia inedita di Giacomo Leopardi. Sulle soscrizioni aperte a Milano per un monumento funebre alla Malibran”»: così Emilio Capannelli, Elisabetta Insabato, Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ’800 e ’900: l’area fiorentina, Volume 2, Firenze, L.S. Olschki, 1996, p. 308. Non ho approfondito la questione, se possa essere il medesimo di cui al punto precedente, ma quello è certo di mano di Vittoria Lazzari, per cui ci troveremmo di fronte all’ennesimo equivoco. È comunque evidente che quest’equivoco favorì non poco la diffusione del carme nell’Ottocento.
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