Qualora mi capitasse
la ventura di ospitare, fra i miei videolettori, un fine latinista, son
certo che rimarrebbe del tutto attonito e istupidito nell’osservare la
“bella” strisciolina
da cui siete pervenuti in questa pagina. E non a torto, ché la
tradizione catulliana, in maniera pressoché concorde, tramanda
la lezione impar. Per reperire quel par che tutti conosciamo
bisogna attendere una correzione di seconda mano sul celeberrimo e contestatissimo Datanus, che, come è noto, è il codice più eccellente
fra i recentiores.
E in effetti quel titolo illustrato è proprio
un mio fotomontaggio traditore: un falso insomma, eseguito sulla prima
riga della pagina qui riprodotta del codex Venetus
Marcianus Lat. XII,
80, anch’esso fra i più importanti recentiores (si è persino
cercato - a dir il vero con risultati dubbi - di renderlo testimone indipendente).
Come ciascuno può osservare, il codice riporta ovviamente il solito impar. Nonché le altre lezioni peculiari al deperditus
Veronensis, ovvero miseroque al v. 5 (con la correzione posteriore quod),
la lacuna del v. 8 (che nel testo ho supplito con la la congettura del
Ritter, o, secondo altri, del Doering), flamina al v. 10, limina al v.
12. Diverso invece il discorso per tintinnat al v. 11, che sembra apparentare,
se ce ne fosse bisogno, il Marciano al Romano (Vat.
Ottob. Lat. 1829).
In questo caso i due codici più importanti hanno rispettivamente tintinat (Germanensis), che è la lezione accolta da tutti gli
editori, e tintiant (Oxoniensi), che si spiega, forse, con un errato
scioglimento di un’abbreviatura.
Ma basta con la filologia, ché sull’internet
non va di moda: troppa fatica la troppa pignolesca precisione; meglio
lasciarla alle care macchine. Per non dire che la filologia è tutta
sostanza e infima apparenza, ovvero l’esatto contrario della rete. E
certo, a volte, mi sembra d’esser l’unico ad aver letto, che so io, Giorgio
Pasquali; ma devo riconoscere che, al di fuori degli ambienti prettamente
accademici, le uniche persone che ho sentito menzionarlo sono Pasolini – in Uccellacci
e Uccellini – e Adriano Sofri.
Due parole d’obbligo, invece, sull’interpretazione
del carme catulliano. Il tema della gelosia, decisamente autobiografico, è stato
ormai accantonato. Forse anche troppo: ché i due ille incipitari,
ribaditi dal qui del v. 3, hanno un loro peso. E si aggiunga
la posizione antitetica e strutturalmente chiastica di misero [...] mihi rispetto
a ille [...] par [...] deo. Ma di gelosia
non può, a rigore, parlarsi, e una larvata invidia di Catullo
per quel fortunato mortale, fosse pur più manifesta di quella
che provava Saffo nella medesima situazione, non uscirebbe comunque dal
generico, senza toccare il nucleo concettuale della lirica (che è sempre
e comunque, sia in Saffo che in Catullo, l’effetto perturbante dell’amata
sul poeta che la contempla). E in ogni caso vien subito a spegnersi,
come ogni altra passione, di fronte al volto di Lesbia che dolce sorride.
Vi è, a dire il vero, un po’ d’artificio nelle strofe centrali,
che la dice lunga sulla relativa sincerità di Catullo nella sua
opera di traduttore. E io confesso che a volte non so, di fronte alla gemina
nox, se rimanere ammirato o infastidito. Certo mi sembra più catulliana
la prima strofa, con quel suo splendido inizio, più drammatico,
senz’altro più enfatico, ma comunque vivo e plastico, di fronte
al classico puro nitore della poetessa di Lesbo. E l’immagine della donna dulce
ridens è veramente indimenticabile. Quanto all’ultima strofe,
infine, se pur vogliamo giustificarla con un ripiegamento interiore di
Gaio Valerio, quasi fosse un inconscio riscuotersi dall’accidia amorosa
e dai suoi veleni, lo stacco rimane comunque brusco: i versi, in sé non
brutti, potrebbero avere una loro peculiare carica poetica, amplificata
dalla triplice anafora, cui la variazione conferisce levità. Ma
non è agevole individuarla in questo contesto. Oltretutto l’agitarsi
scomposto e il saltellar per la gioia del v. 14 mal si addicono al vero
e proprio svenimento dei versi precedenti, con un brusco trapasso che
sarebbe tutt’altro che insolito in un moderno, ma – il grande Auerbach
insegna – del tutto impensabile per un antico, che rifuggeva come
la peste dalle zone d’ombra. E quindi la manina, che vedete dabbasso
nell’illustrazione più sopra, ha le sue ragioni di appuntarsi,
alla stregua dei dubitosi segni critici alessandrini, su questi versi.
Forse anche qui, come in Saffo, si è perso qualcosa per strada. |