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Nota – Innanzi tutto la numerazione ai versi: non è leopardiana e si riporta per comodità del moderno lettore. Nell’originale ogni strofa corrisponde a una facciata, disposizione che qui si è sostituita con l’interlinea in bianco. Le strofe 1-6, 9 presentano l’in-dentro; Le strofe 7-8, 10-12 l’in-fuori. Ho mantenuto questa anomala “formattazione’, in quanto dà una idea visiva di una evidente incertezza del poeta, che finirà poi per optare per l’in-dentro generalizzato, salvo riservare, anche per un motivo affettivo, gli in-fuori alle composizioni giovanili (si veda, nella Starita, il canto X, Il primo amore). Da segnalare infine che il verso 107 presenta a pie’ di pagina tre varianti, solitamente ignorate dagli editori (non però negli Scritti vari 1906). In calce anche la variante (vv. 14-15), se tale può definirsi, del Supplemento generale, su cui cfr. l’introduzione. |
Io so ben che non vale Beltà nè giovanezza incontro a morte; E pur sempre ch’io ’l veggio m’addoloro: Che s’io nol veggio, il mio desir prevale, Tanto ch’io spero pur che l’enea sorte Altrove ad altri casi ad altri tempi Riservi i tristi esempi; Fin che dal mal presente è sbigottita La misera speranza. Com’or che a l’occidente di sua vita Veggio precipitar questa dogliosa, Poi ch’altro non m’avanza, Già mai di lagrimarla io non fo posa.
Ed è pur tanto bella E tanto schietta e in così verde etade, E poco andrà ch’io potrò dire, è morta, È morta e non risponde: ahi poverella! Che dolor, che lamento, che pietade, Chiusi quest’occhi, e morto questo volto, E ’l popolo raccolto Dirle per sempre addio, ch’esser doveva Tanto tempo fra noi; Or non so chi nè come ce la leva: Solo a pensarlo mi si schianta il core, Ben ch’i parenti tuoi Son d’altro sangue, e tu sei d’altro amore.
Quando de l’infelice Viemmi talun recando aspre novelle, Mi studio quanto so farle più levi: Chi sa? dunqu’esser puote? or chi tel dice? Tal patteggiando vo con quello e quelle: Ma d’ogni patto il nunzio si disdegna, E quanto può s’ingegna Ch’io creda ch’e’ non disse altro che vero, E provando mi scaccia D’ogni rifugio in sin ch’io mi dispero, E veggio ben che tu ci lasci soli, E la tua bella faccia Poco può star che sempre a noi s’involi.
Deh che mostra per Dio Quel sospiroso e languido sembiante Che par che dica, io di pietà son degna, Che nacqui sfortunata. Io ’l so ben io, Tristo me tristo me; questa di tante Sventure ch’io sostenni è la più dura. Ahi ahi, ma così pura E così vaga, dì, forse che stai Temendo di morire? Non temer, non temer, che non morrai; Non può mai far. Non vedi? io pur saria (Che t’ho certo a seguire) Vicino a morte, e son quello di pria.
Dico ch’io t’ho per certo A seguitar, che s’a la tua non viene Dietro la vita mia, partir non puote; Nè so perchè, ma pur mi sembra aperto, Ben che d’amarti il vanto altri si tiene. Ch’io dica, è morta quell’istessa, quella Ch’io veggio? e mi favella? Or s’ella è morta, ed io come son vivo? Questo io so che mai vero Non fia, ch’a intender pure io non l’arrivo. Fa cor fa cor, che senza fallo alcuno, Passato il tempo nero, Conterem questi affanni ad uno ad uno.
Misero me, che invano Lusingando me stesso a un tempo e lei, Rinforza il male, e ’l gran dolor s’accosta. Deh per pietà non sia cor sì villano Che non si mova a sovvenir costei; Deh troviam qualche via, troviam qualch’arte, Che questa se ne parte, E s’altri non l’aita, ha poco andare. Oimè nulla non giova? Io non so far che ’l creda: io vo’ provare Io stesso, io vo’ vedere. E ’l veggio bene, Sciaurato, per prova Che disperarmi al tutto mi conviene.
Poveri noi mortali Che incontro al fato non abbiam valore. Sta come sconcio masso, e noi ghermito Meglio che può con queste braccia frali, Poniam di sbarbicarlo ogni sudore; Ma quello è tal da poi, qual fu davante. Ed io pregando quante Possanze ha ’l cielo, e tutto foco in faccia, E ambasciato e sudato, E stese fortemente ambe le braccia, Perir vedrotti, ch’io nulla non posso A contrastarlo, e ’l fiato Tardar che da’ tuoi labbri in fuga è mosso.
Dunque o donna, morrai? Sì certo, sì, nè cosa altra mi resta Se non che moribonda io la consoli. O cara mia, confortati: se mai Tua gente e me con lei tutta funesta Vorrà far Dio, ripiglia cor: natura N’ha fatti a la sciaura Tutti quanti siam nati. Anima mia, Non pianger: gli occhi gira; Qual puoi veder che misero non sia? Ben che ti par, non ti verrà trovato. Or poi che si sospira E piange invano, offriamci al nostro fato.
Vero è che la fortuna È teco più spietata che non suole Che ’l fior di giovanezza ti rapisce: Pur datti posa; han di piacere alcuna Sembianza i mali estremi. Or vedi, il sole Non andrà molto ch’io sarò sotterra, Che se ’l veder non erra, Anche a me breve corso il ciel misura; E pur di mia giornata Son presso a l’alba, nè di morte ho cura, Che qual mai visse più, quei visse poco, E chi diritto guata, Nostra famiglia a la natura è gioco.
Ma questo ti conforti Sopra ogni cosa, ch’innocente mori, Nè ’l mondo ti spirò suo puzzo in viso. Tutti tuoi pari andran tosto fra’ morti, E avranno il più di lor fracidi i cori; Che questo mondo è scellerata cosa, E quel mal che non osa Candida gioventute, è scherzo al vile Senno d’età provetta, E nefanda vecchiezza; e in cor gentile Quel che natura fe’ spegne l’esempio, Tanto che poco aspetta Quel giusto ed alto a farsi abbietto ed empio.
E te pur lorda avria L’indegna mota che sei tanto bianca; Tutti, qualunque ha più robusto il petto, Io de’ malvagi io fora o donna mia, E sarò pur se ’l tempo non mi manca, Che virtù prezzo più che gioventude, E se virtù non chiude Fuggo beltà che pur m’è tanto cara; Me, s’io non ho già presso L’ultimo sol, me di sua pece amara Imbratterà la velenosa etade, E questo core istesso Fia di malizia speco e di viltade.
Or ti rallegra o sventurata mia: Tutto ti toglia l’implacanda sorte; Non l’innocenza de la corsa vita Non ti torrà nè morte Nè ’l cielo nè possanza altra che sia. Fra nequitosa gente, Qual se’ discesa, tale a la partita, Cara, o cara beltà, mori innocente. |
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Varianti al v. 107:
Che da noi così presto ti divelle: Che ’l fior de gli anni in su l’aprir ti svelle: Che rompe il tuo fiorir quand’è più vago:
(l’ultima variante è erroneamente letta dall’ed. Gavazzeni Che ’l rompe ecc.).
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Dal Supplemento generale di tutte le mie carte. (BNC, Firenze, B. R. 342, n. 11, 1. Facc. 1, ad med.) :
Alla canzone per una donna malata ec. | Scrivi: ed è pur tanto bella, E tanto schietta. |
© 09-05/2010—> 23.05.2010